NOTE DALLA STRADA

PENSIERI DALLA CITTÁ DEI MORTI

Le note dalla strada sono pezzi del mio diario di viaggio, sproloqui estrapolati e rielaborati in forma leggibile, dove racconto pezzi di viaggi, di vita, di umanità.

ENJOY!

 

«Si tratta di capire che la vita e la morte sono due aspetti della stessa cosa. Arrivare a questo è forse la sola vera meta del viaggio che tutti intraprendiamo nascendo.»

—Tiziano Terzani

Paris - 13 Ottobre 2022

Prima di lasciare Parigi dovevo assolutamente passare da uno dei miei posti preferiti di questa città che anche questa volta—come ogni altra volta d’altronde—mi ha fatto incantesimi d’ispirazione. Questo posto è raramente presente sul tipico itinerario turistico parigino—e posso capire il perché—ma è comunque visitato quotidianamente da centinaia di persone curiose che vogliono andare oltre l’ovvio: il cimitero di Père-Lachaise, il “cimitero degli artisti” dove sono sepolti alcuni dei talenti più brillanti dei secoli scorsi: Oscar Wilde, Marcel Proust, Edith Piaf, Jim Morrison, Amedeo Modigliani, e molti altri. 

Ho sempre avuto una sorta d’attrazione incomprensibile verso i cimiteri; saranno stati tutti i libri di Stephen King letti da adolescente, non so, ma ovunque vado cerco sempre di visitarne uno. Quando abitavo a Los Angeles spesso prendevo un libro in biblioteca e andavo a leggerlo all’Hollywood Forever Cemetery (la casa permanente di Marylyn Monroe, che talaltro ha una tomba alquanto anonima e piccina rispetto alla grandezza della sua stella), che in realtà è anche un bellissimo parco e lì passavo le ore seduta su una panchina, al sole, a perdermi tra le parole altrui; stessa cosa quando vivevo a Londra con il cimitero di High Gate (solo che non c’era il sole, merce rara da quelle parti).

Non mi sono mai chiesta il perchè di questa attrazione, me lo chiedo ora varcando la soglia del grande cancello di Père-Lachaise, e capisco che forse è perché i cimiteri sono un catalizzatore potentissimo di prospettiva: fanno riflettere sul valore della vita e sulla sua impermanenza, inducono uno strano senso di pace mista ad urgenza a vivere.

Ma torniamo a noi.

E’ una mattina grigia, il vento soffia presagi d’inverno, io e Stefania—la mia santa manager dalla pazienza infinita—stiamo camminando tra le tombe ricoperte di muschio ed edera in un’area trasandata di questa immensa città dei morti; camminiamo lente, in silenzio, ognuna presa dai propri pensieri, pensieri inevitabili in un posto come questo: pensieri sulla morte, “quella "terra incognita" di cui nessun viaggiatore ci ha mai raccontato”, come la chiamava Terzani, che sulla morte ci ha insegnato tanto. 

Morte. Una parola che stona sulla lingua pronunciandola. Una parola che vorremmo non pronunciare mai. 

Eppure.

Eppure insieme a vita, è forse la parola più naturale e ovvia che esista; anzi se ci si pensa a fondo, oltre la paura che la parola racchiude in sé, morte e vita sono due parole imprescindibili l'una dall’altra, due facce della stessa medaglia. La morte nasce con noi, è l’unica destinazione comune dell’umanità, una delle poche certezze di questa vita…

Due gocce sulla fronte interrompono il loop dei miei pensieri, una pioggia battente improvvisa ci fa accelerare il passo, non abbiamo l’ombrello—e mi sono appena lavata i capelli—mi tolgo il cappotto e me lo metto in testa, vaghiamo per un po e poi ci riapariamo sotto la tettoia di una piccola cappella dove riposa in pace la famiglia Foquerre. Due corvi ci passano davanti e volano su un albero, il loro gracchio echeggiante sovrasta il rumore della pioggia. Aspettiamo che smetta; smetterà, Brandon Lee—che giace in un altro cimitero, a Seattle*—ha insegnato alla mia generazione che, tanto, non può piovere per sempre.

Stiamo in silenzio qualche secondo contemplando il momento—molto da libro di King—poi mi giro verso Stefania e le chiedo:

“Hai mai pensato a cosa ne vuoi fare del tuo corpo quando morirai?”

“Te lo stavo per chiedere io!” risponde lei.

“Dai vai prima tu” temporeggio.

“Bo, so che non voglio assolutamente un funerale in chiesa…se non creerebbe troppi problemi preferirei non finire in un cimitero, vorrei essere sepolta in un bel posto, magari a casa dei miei, c’è un giardino immenso là…non so se è fattibile ma  mi piacerebbe così. E tu?”

“Ci ho pensato spesso sai, in un mondo ideale mi piacerebbe fare un po come Nate di Six Feet Under, sepolto nel mezzo del nulla, nella natura, senza bara, senza niente, sai, tutta la questione “tornare alla terra”…oppure, nel mondo più reale fatto di burocrazia castrante, mi andrebbe bene essere cremata, e vorrei che le mie ceneri vengano sparse nelle montagne del paesino dove è nato mio papà, le stesse montagne che mio nonno amava tanto…”

Qualche secondo di silenzio.

“Ti fa paura la morte?” Chiede Stefania.

“…” esito “Quella degli altri si, una paura fottuta; la mia sinceramente no.”

Non ricordo di aver pensato molto alla morte quando ero piccola, non ne le ho mai dato tanta importanza, non credevo nemmeno esistesse davvero forse, fino a quando è andata a trovare mio nonno e mi è arrivata in casa. Non conoscevo la Sofferenza—quella massacratrice di Gioia—prima di allora; qualche patema esistenziale lo avevo avuto, ma roba da adolescenti. La Sofferenza-quella-vera invece la prima volta che si fa sentire è devastante, totalizzante, ti prende completamente alla sprovvista, non te la aspetti perché non la conosci fino a quando si presenta:

“Ciao, piacere di conoscerti! ti entrerò dentro e distruggerò ogni brandello di felicità in te, metterò sottosopra ogni tua certezza, al punto che il mondo non ti sembrerà più lo stesso. Mi sentirai in ogni tua cellula, proverai la mia morsa stretta sul cuore, ti scaraventerò addosso mio figlio, il Dolore, e lui ti avvolgerà la mente, le viscere, la gola, e non riuscirai quasi più a respirare…” si accende pure una sigaretta la drama-quuen, poi continua”…ma poi imparerai a conoscermi, ci parleremo noi tre, poi allenteremo un po la presa, e lì capirai che avevamo qualcosa da insegnarti, e quando avrai imparato quel che dovevi imparare ce ne andremo, e tornerai a respirare, e riscoprirai l’importanza della gioia. Alla fine non avrai rancore verso di me, perché io servo a non farti dare per scontato quel che conta, io servo a ricordarti di vivere. E infatti brillerai di vita nuova dopo di me. 

Ma ora devi soffrire, darling.” (La mia Sofferenza mi parla così, mi chiama darling e ha un tono da saggia melodrammatica.)

Qualsiasi il suo volto—ne ha tanti—è una grande maestra di vita la Sofferenza—quella doppiogiochista—infondo ti indica la via (spoiler:dentro.)

La morte di mio nonno è stato uno dei momenti in cui ho sofferto di più nella mia vita, ma non l’unico. La sofferenza di alcune delle persone che ho incontrato—in India, in Iraq, in Libano—mi è entrata dentro; posso nascondermi dietro un obbiettivo finché voglio, pensando che mi scudi perchè il mio compito è raccontare la loro storia, ma quella roba—se hai un anima—che tu lo voglia o no la assorbi, ti lascia un segno. La morte di ogni amore mi ha uccisa un poco. Anche il lutto ha tanti volti. Eppure, è forse proprio grazie alla Sofferenza che continuo ad amare la vita, a trovarci la gioia dentro. E’ grazie a lei se non ho paura della mia morte. 

Sofferenza e Morte sono amiche di vecchia data. “E’ più pericoloso nascere che morire.” L’ha detto Benigni in un bellissimo monologo sui 10 comandamenti tanti anni fa. Credo avesse ragione.

Perchè la morte—la propria morte—fa così paura allora? Paura al punto che la nascondiamo; paura al punto che è tabù parlarne e sbagliato contemplarla, anche nelle nostre ore più buie; paura al punto che ci accaniamo contro il diritto di morire altrui. Perché? 

Forse aveva già risposto Terzani a questa domanda: 

“Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l’idea che scomparirà in quell’attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un’ossessione.”

Un flash mi scaraventa nella stanza dove, imprigionato nel mogano, c’era il corpo del nonno. “…gli tocco la mano, è più fredda dell’inverno, un gelo che non dimenticherò più, poi chiudono il coperchio su quello che è rimasto di lui, sigillandolo per l’eternità”. [Ne ho scritto per esteso altrove, non voglio rifarlo qui, è stata una delle imprese più titaniche della mia vita scrivere di quella perdita.] 

Un altro flash mi riporta alla mia prima India: ero lì da una settimana, mi trovavo in auto con Ankit—che avevo appena conosciuto e che oggi è un caro amico—nella periferia di Agra. Finestrini abbassati: Il traffico, quei fortuitissimi clacson, il caldo torrido che mi si appiccicava addosso e l’odore di acqua di rose e merda di mucca che mi invadevano le narici mi stavano stordendo. Ho iniziato a sentire delle voci, tante voci, anzi non erano voci, erano dei canti. Sporgendomi dal finestrino ho visto avvicinarsi una folla, trasportavano qualcosa ma non riuscivo a capire cosa, poi quando sono arrivati a pochi metri dall’auto di Ankit ho capito: era un corpo. Era il cadavere di uomo vestito di bianco, il volto scoperto, il corpo cosparso di fiori arancioni; era adagiato su una barella di legno di bambù eretta in aria sulle spalle dei parenti maschi. Avrei imparato in seguito che quei canti erano mantra, per la precisone il mantra ‘Om namo Narayanaya’—che in sanscrito significa a grandi linee “mi inchino davanti al divino”—che viene spesso cantato nei rituali funebri in quanto si crede porti pace al defunto mentre ritorna “alla fonte”.

Quella vista—la morte così sbattuta in faccia, letteralmente per strada—mi aveva scossa. Non ne sapevo ancora niente di come guardano al mondo gli induisti, o i buddisti, o certe culture scismatiche o animiste. Avevo iniziato a viaggiare da poco, Il mio mondo era più piccolo all’epoca e non avevo idea che il modo in cui lo vedevo—il mondo ma anche la vita—sarebbe iniziato a cambiare drasticamente dopo quel viaggio. 

L’India fa così, ti scuote, ti da una sberla, ti sveglia. 

La sberla più grande era arrivata qualche settimana dopo a Varanasi, per gli indiani Banares, la città più sacra dell’India, e una delle più antiche al mondo. Il sole era appena sorto, l’aria rosata era intrisa di foschia e misticismo, Il suono di campanelle proveniva da tutte le direzioni, i sadhu—quelli che in occidente definiamo, spesso dispregiativamente, “i santoni” che altro non sono che uomini che hanno abbandonato tutto per dedicarsi alla ricerca del divino—con gli occhi chiusi meditavano indisturbati mentre le mucche gli vagavano intorno mangiando fiori e spazzatura qui e là. Camminavo sola sui ghat—i gradoni che costeggiano il Gange, il fiume sacro per eccellenza—e osservavo decine di donne e uomini che si immergevano nei riflessi dorati delle acque sacre e fetide del Gange per le abluzioni purificatorie, prendevano l’acqua tra le mani e le alzavano al cielo, offrendola al sole. Sembrava di essere in un altra dimensione, surrelale è la parola più adatta, ed era impossibile non sentire qualcosa di diverso, sentirsi diversi, tutto era impregnato di una “presenza”, di un’ “energia”—parola da usare cautamente— mai sentita prima. La parola divino—altra parola che uso cautamente e in termini molto diversi da quelli attribuitagli in occidente—iniziava e riecheggiarmi nei pensieri, così come domande che prima non mi facevo: “Cosa succede dopo la morte?” Dove eravamo prima di nascere? Cosa tiene insieme tutto? Che cosa ci faccio qui?”

Continuando a camminare, senza nemmeno accorgermene, mi ero ritrovata davanti al Dashashwamedha Ghat—o burning ghat—il crematorio principale della città. La morte era lì, sui gradoni sulla riva del fiume, nel mezzo della quotidianità della città, decine di pire con corpi che ci bruciavano sopra lentamente sotto gli occhi di tutti, senza veli. Guardavo le pire in fiamme incapace di distogliere lo sguardo; quando ho visto quel che rimaneva di una testa cadere dalla pira rotolando per terra mi si è stretto lo stomaco e mi è venuto un conato di vomito, ma non riuscivo ad andarmene. Sono rimasta un’ ora, forse due, in mezzo al fumo e all’odore di carne bruciata, a fare domande a chi era disponibile per una chiacchiera, e ad ogni parola o spiegazione rimanevo sempre più incantata da questa cultura anni luce lontana da me, ma che aveva qualcosa di così familiare, di così sensato nel suo non-senso.

I crematori di Varansi non chiudono mai: le pire bruciano giorno e notte, perché la morte non si ferma, così come la vita, che inspiegabilmente dall’inizo dei secoli va avanti. Varanasi è anche chiamata “la città della morte” perché milioni di Hindu ogni anno ci vanno a morire: si crede che morendo a Varanasi si possa raggiungere moksha, la liberazione dal ciclo continuo di morte e rinascita—il samsara—che è fonte di sofferenza—e aggiungerei fatica—continua. I corpi dei defunti vengono cosparsi di polvere di legno di sandalo, di ghi—burro chiarificato—e qualche goccia di acqua del Gange, poi il primogenito (se il defunto è uomo, l’ultimogenito se è donna) appicca il fuoco, partendo dalla testa e il corpo rimane inghiottito dalle fiamme finché diventa cenere. Per gli Hindus il corpo fisico non ha più nessun utilità dopo la morte—ha la stessa valenza di un vecchio veicolo irreparabile che non si può più usare—e credono che bruciarlo, dissolverlo in cenere, polvere, sia il modo più veloce per il rilascio dell’anima—l’essenza, il “soffio vitale” che gli indiani chiamano Ātman—così che sia libera di andare altrove.

In occidente la vediamo diversamente, c’è chi crede che dopo la morte ci sia il paradiso, o l’inferno, chi crede non ci sia niente, chi adotta la visione orientale della reincarnazione, ma nessuno sa per certo chi ha ragione. E forse, più dell’attaccamento al corpo, quello che ci fa più paura è proprio questo non sapere cosa potrebbe esserci o non esserci dopo. 

L’ignoto è una delle cose che, anche nella vita di tutti i giorni, ci terrorizza di più d’altronde: l’ignoto è incertezza, assenza di controllo, e noi invece siamo geneticamente predisposti all’illusione del controllo, all’avversione al cambiamento, all’attaccamento alle certezze, all’ostinata aspirazione all’immortalità.

Io però l’ignoto ho imparato a farmelo amico, ad abbracciarlo e buttarmici dentro, a rilassarmi nella sua imprevidibiltà; perché l’ignoto è sempre una grande avventura—caotica ma mai noiosa—il non sapere è un opportunità di scoperta, il cambiamento un viaggio. Ma poi vi immaginate che rottura di coglioni vivere per sempre?!

“Ha smesso di piovere” Stefania mi riporta alla realtà, poi prosegue il filo di un ragionamento di cui mi ero persa l’inizio assorbita dai miei flash “Un’amica una volta mi ha raccontato che ha dovuto presenziare alla riesumazione di una prozia sepolta decenni prima della sua nascita; quando hanno aperto la bara c’era ancora il suo scheletro completamente vestito, il becchino ha toccato il vestito e tutto si è sbriciolato in polvere, persino i vestiti, persino i gioielli, tutto. Una perfetta metafora dell’ impermanenza di ogni cosa su questa terra…”

“Niente dura per sempre” aggiungo con tono filosofeggiante. 

“Ahimè.” sospira Stefania. “Continuiamo il giro?”

“Allons-y” rispondo in un francese imbarazzante togliendomi il cappotto da sopra la testa.

Ci ributtiamo sul selciato bagnato del cimitero, guardiamo la mappa che avevamo fotografato all’entrata dove sono indicate le tombe di tutti gli artisti degni di nota sepolti lì e ci dirigiamo verso la tomba di Jim Morrison, artista dannato e front-man dei The Doors, che si è unito al “27 club” (termine giornalistico usato per indicare vari artisti morti a 27 anni, principalmente rockstars, principalmente morte di overdose) nel 1971 e che da allora risiede a Père-Lachaise. 

Le cause della sua morte rimangono ancora oggi oggetto di mistero: la versione ufficiale è che sia morto nella vasca da bagno del suo appartamento per arresto cardiaco, ma c’è chi sostiene sia morto di overdose di Eroina nel bagno del Rock’n’Roll Circus bar e successivamente trasportato a casa e messo nella vasca da bagno; non è mai stata fatta un’autopsia, ma qualsiasi la vera causa sia è innegabile che Jim fosse sulla strada dell’autodistruzione da mo. L’epigrafe sulla sua lapide infatti recita, in greco: “«Kata ton daimona eautou», nel segno del suo demone. 

La tomba, ora transennata, è ricoperta di fiori, foto, bigliettini, spille, cd; persino le transenne sono ricoperte di scritte e stickers di ogni genere. Tempo fa ho letto una frase di Chuck Palaniuk—lo scrittore di Figh Club—che diceva: “Moriamo tutti. L’obiettivo non è vivere per sempre, ma creare qualcosa che lo farà”…sembra che Jim Morrison ci sia riuscito.

Il cielo si apre e lascia trapassare qualche raggio di sole. E’ ora di andare, abbiamo un appuntamento obbligatorio con una fondue prima di andare in aeroporto. Sulla via d’uscita dal cimitero passiamo davanti alla tomba di Proust—il cui ‘Alla ricerca del tempo perduto’ giace sul mio comodino da almeno un anno; giuro davanti alla sua tomba che lo leggerò—è modesta ma elegante. Qualcuno ha lasciato un bigliettino giallo con sopra scritta a mano una delle sue citazioni più famose “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel avere nuovi occhi”.

E forse—insieme all’iniziare a percepire qualcosa dentro di sé di "più grande”, quell’ atman di cui parlano i miei cari indiani—è proprio quello l’antidoto per la paura della morte: guardarla con occhi nuovi. Accettare che la morte è parte della vita, che non la si può combattere, che non le si può sfuggire, e che quindi l’unica cosa che si può fare è integrarla nella propria vita, anzi, farne un inno alla vita, farne un promemoria sacro che ci ricordi giorno dopo giorno che la vita—con le sue gioie e i suoi dolori—non dev’essere sprecata, che va vissuta appieno.

Non so voi, ma io ho molta più paura di morire piena di rimpianti che della morte in sé. Come diceva Mark Twain—ultima citazione, promesso—“La paura della morte viene dalla paura della vita. Chi vive pienamente è preparato a morire in qualsiasi momento”.

Forse, alla fine, aver paura di morire è non aver capito la vita. E se si vive con quella paura costantemente infilata dentro, si finisce per vivere una vita a metà, o per non vivere proprio. 

Credo che pensare alla morte sia necessario, credo sia utile, ma senza farne un ossessione. Ad un certo punto bisogna lasciarla andare, rilassarsi nel suo mistero, e trasformare la paura in carburante per rendere la propria vita—qui, ora, adesso—un’avventura, un viaggio, e, perché no, una cazzo di opera d’arte.

“Chissà che fine faremo comunque…” tira le somme Stefania, mentre varchiamo di nuovo la soglia del grande cancello di Père-Lachaise.

“Non lo sapremo mai, ma intanto possiamo vivere, è quello il bello no?! Dai, andiamo a sfondarci di fondue!”

Love,

—S


NON TUTTI RIESCONO AD ASCOLTARE LA PROPRIA VOCE PERCHè C'è TROPPO RUMORE INTORNO

NON TUTTI RIESCONO AD ASCOLTARE LA PROPRIA VOCE PERCHè C'è TROPPO RUMORE INTORNO

UN MANIFESTO GENERAZIONALE PER SOGNATORI E CINICI

Qui dentro troverete un giro di montagne russe di emozioni, vi farà piangere, vi farà ridere ma sopratutto vi farà riflettere sull’importanza dei sogni, del rialzarsi dopo una caduta e su quanto sia necessario ascoltarsi, spegnendo tutto il rumore intorno, incluso quello dei social.

È un libro che riempie di domande, convince gli indecisi e motiva gli arresi, e che, forse, regala un po di quella forza che serve per credere che nella vita nulla è semplice, ma quasi tutto è possibile, sopratutto la felicità (quella sostenibile davvero però).